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Etica teleologica (Italiano)

By admin on Gennaio 21, 2021

Etica teleologica, (teleologica dal greco telos, “fine”; logos, “scienza”), teoria della morale che deriva il dovere o l’obbligo morale da ciò che è buono o desiderabile come fine da raggiungere. Conosciuta anche come etica consequenzialista, si oppone all’etica deontologica (dal greco deon, “dovere”), che sostiene che le norme fondamentali per cui un’azione è moralmente giusta sono indipendenti dal bene o dal male generato.

L’etica moderna, specialmente a partire dalla filosofia deontologica tedesca del XVIII secolo di Immanuel Kant, si è profondamente divisa tra una forma di etica teleologica (utilitarismo) e le teorie deontologiche.

Le teorie teleologiche differiscono sulla natura del fine che le azioni dovrebbero promuovere. Le teorie eudaemoniste (in greco eudaimonia, “felicità”), che ritengono che l’etica consista in qualche funzione o attività appropriata all’uomo in quanto essere umano, tendono a sottolineare la coltivazione della virtù o dell’eccellenza nell’agente come fine di ogni azione. Queste potrebbero essere le virtù classiche – coraggio, temperanza, giustizia e saggezza – che promuovevano l’ideale greco dell’uomo come “animale razionale”; o le virtù teologiche – fede, speranza e amore – che distinguevano l’ideale cristiano dell’uomo come essere creato a immagine di Dio.

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Le teorie di tipo utilitaristico sostengono che il fine consiste in un’esperienza o un sentimento prodotto dall’azione. L’edonismo, per esempio, insegna che questa sensazione è il piacere – o il proprio, come nell’egoismo (il filosofo inglese del 17° secolo Thomas Hobbes), o quello di tutti, come nell’edonismo universalistico, o nell’utilitarismo (i filosofi inglesi del 19° secolo Jeremy Bentham, John Stuart Mill e Henry Sidgwick), con la sua formula della “massima felicità del maggior numero”. Altri punti di vista teleologici o di tipo utilitaristico includono le affermazioni che il fine dell’azione è la sopravvivenza e la crescita, come nell’etica evolutiva (il filosofo inglese del XIX secolo Herbert Spencer); l’esperienza del potere, come nel dispotismo (il filosofo politico italiano del XVI secolo Niccolò Machiavelli e il tedesco del XIX secolo Friedrich Nietzsche); la soddisfazione e l’adattamento, come nel pragmatismo (i filosofi americani del XX secolo Ralph Barton Perry e John Dewey); e la libertà, come nell’esistenzialismo (il filosofo francese del XX secolo Jean-Paul Sartre).

Jeremy Bentham, particolare di un dipinto a olio di H.W. Pickersgill, 1829; nella National Portrait Gallery, Londra.
Jeremy Bentham, particolare di un dipinto a olio di H.W. Pickersgill, 1829; nella National Portrait Gallery, Londra.

Per gentile concessione della National Portrait Gallery, Londra

Il problema principale per le teorie eudaemoniste è quello di dimostrare che la conduzione di una vita virtuosa sarà accompagnata anche dalla felicità, dalla conquista dei beni considerati come il fine principale dell’azione. Che Giobbe debba soffrire e Socrate e Gesù morire mentre i malvagi prosperano, come sottolinea il Salmista (73), sembra allora ingiusto. Gli eudaemonisti rispondono generalmente che l’universo è morale e che, nelle parole di Socrate, “Nessun male può accadere a un uomo buono, né in vita né dopo la morte”, o, nelle parole di Gesù, “Ma chi resiste fino alla fine sarà salvato.”

Le teorie utilitaristiche, invece, devono rispondere all’accusa che il fine non giustifica i mezzi. Il problema sorge in queste teorie perché tendono a separare i fini raggiunti dall’azione con cui questi fini sono stati prodotti. Un’implicazione dell’utilitarismo è che l’intenzione nel compiere un atto può includere tutte le sue conseguenze previste. La bontà dell’intenzione riflette allora l’equilibrio tra il bene e il male di queste conseguenze, senza limiti imposti dalla natura dell’atto stesso – anche se si tratta, per esempio, della rottura di una promessa o dell’esecuzione di un uomo innocente. L’utilitarismo, nel rispondere a questa accusa, deve dimostrare o che ciò che è apparentemente immorale non lo è realmente o che, se lo è realmente, un esame più attento delle conseguenze porterà alla luce questo fatto. L’utilitarismo ideale (G.E. Moore e Hastings Rashdall) cerca di affrontare la difficoltà sostenendo una pluralità di fini e includendo tra questi il raggiungimento della virtù stessa, che, come affermava Mill, “può essere sentita come un bene in sé, e desiderata come tale con la stessa grande intensità di qualsiasi altro bene”.

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